di Giovanni De Sio Cesari

INTRODUZIONE

Nel tragico turbinare dei conflitti palestinesi che si trascinano ormai da tre generazioni, gli ebrei di tutto il mondo si sentono vittime di un risorgere delle persecuzioni che hanno segnato episodicamente tutta la loro storia da duemila anni. Non si sentono più al sicuro nel portare la Kippah, nel frequentare le sinagoghe, diciamo nell’essere indicati come ebrei. Si parla quindi di un risorgere dell’antisemitismo che sembrava ormai cosa del passato.

In realtà si confondono tre concetti molto diversi, diciamo pure in contrasto fra di loro: l’anti-ebraismo dei secoli passati, l’anti-semitismo propriamente del nazismo e l’attuale anti-sionismo. Il primo aveva carattere religioso, il secondo invece è una forma estrema di razzismo e entrambi non hanno nulla a che fare con l’attuale antisionismo, che è un contrasto politico legato alla formazione dello Stato di Israele. Tuttavia, i tre movimenti, diversissimi fra di loro, hanno in comune il fatto di essere rivolti sempre contro gli ebrei, quindi vengono assimilati e sentiti come una sola cosa. Cerchiamo di chiarire qualche concetto essenziale dei tre movimenti.

 

ANTI-EBRAISMO

Il mondo antico e quello romano non furono pregiudizialmente ostili agli Ebrei. Nel 70 d.C. e poi nel 140 d.C. vi furono due terribili repressioni dei Romani che terminarono con l’esclusione degli ebrei dalla Palestina, durata fino ai nostri giorni. Tuttavia, si trattava solamente di un fatto puramente politico, della repressione di una rivolta nazionale dei Giudei di Palestina: la diaspora ebraica era già iniziata e tutti gli Ebrei sparsi per il vasto impero che non avevano preso parte alla rivolta non ne furono coinvolti: gli ebrei di oggi sono loro discendenti.

La situazione mutò radicalmente con l’affermarsi del cristianesimo: gli Ebrei furono emarginati fino alle soglie dell’età moderna, fino all’affermarsi dello Stato laico e liberale. La discriminazione era però contro gli Ebrei intesi come i seguaci di una religione, non contro un popolo. Nel momento in cui l’ebreo si convertiva al cristianesimo, cessava di essere un ebreo ed era considerato un cristiano come gli altri.

L’emarginazione degli Ebrei non era un atto diretto specificatamente  contro di essi, ma la conseguenza di un modo di concepire lo Stato e la vita sociale. La fede religiosa era un elemento essenziale per individuare un popolo: coloro che  non erano cristiani non potevano fare parte propriamente della nazione. Il concetto non riguardava specificamente gli ebrei: qualunque comunità non cristiana era considerata un corpo sociale a parte.

D’altra parte, simili leggi si trovavano anche nel mondo mussulmano, dove cristiani ed Ebrei erano considerati “dimmy,” cioè “protetti,” liberi di professare la loro fede ma non equiparati ai mussulmani. Ed è la stessa cosa che avveniva in Occidente: gli Ebrei erano “protetti” dal principe ma non venivano confusi con il popolo cristiano, e d’altra parte, gli stessi Ebrei non chiesero mai una cosa del genere. Va notato che anche nell’ambito cristiano, le confessioni minoritarie venivano emarginate: avveniva per i Valdesi in Francia e Italia, per i cattolici in Inghilterra, per i protestanti nei paesi cattolici.

Gli Ebrei erano quindi considerati stranieri e per questo potevano essere espulsi, come in effetti avvenne spesso: la cacciata degli ebrei dalla Spagna del 1492 è la più nota, ma in effetti già prima erano stati espulsi da Inghilterra, Francia e dalla Germania. Da questa ultima emigrarono verso paesi slavi portando una forma di lingua tedesca (Yiddish). In molti paesi, a un certo punto, divenne comune la loro chiusura in quartieri particolari, i ghetti, le cui porte, a volte, venivano chiuse di notte.

 

COSMOPOLITISMO e ANTISEMITISMO

La libertà religiosa si fece strada, ma molto lentamente e faticosamente, nell’Europa moderna. E man mano che si affermava, cadeva anche l’emarginazione degli Ebrei, che potevano quindi fare parte integrante, a pieno titolo, della vita sociale e politica. Tuttavia, il liberalismo si affermò insieme allo stato nazionale, e questo pose un nuovo problema: gli Ebrei erano parte della nazione?

Gli Ebrei intrattenevano legami culturali e religiosi al di sopra dei confini nazionali: potevano essere allora considerati propriamente parte della nazione o erano dei “cosmopoliti” (l’ebreo errante, senza patria), quindi sospetti di scarsa lealtà alla nazione? Il concetto di nazione, infatti, è molto vago e incerto. L’esaltazione nazionalista portava a diffidare di essi. L’affare Dreyfus fu una manifestazione di questo pregiudizio: un ebreo che aveva parenti in Germania poteva essere considerato un vero francese, assolutamente fedele, o forse in lui prevaleva lo spirito ebraico su quello francese? I nazionalismi più esasperati stentavano a considerare gli Ebrei come parte della nazione e tendevano a considerarli come un popolo a parte, quindi come stranieri.

A questo punto andò affermandosi in Europa, del tutto inaspettatamente, l’antisemitismo di marca nazista. L’antisemitismo è cosa del tutto diversa dall’antiebraismo dei secoli precedenti: esso consiste nella contrarietà a un popolo considerato una razza, per motivi biologici-genetici, non culturali, non ha rilevanza il fatto religioso e culturale.

Con l’accusa di cosmopolitismo, si diffidava dalla loro lealtà e appartenenza alla nazione, ma invece gli ebrei, considerati una razza, sono considerati l’origine di ogni male, i responsabili di tutte le disgrazie del popolo tedesco e in ultima analisi non propriamente degli uomini, ma qualcosa di inferiore all’uomo, dei sotto-uomini che quindi possono essere eliminati senza alcun problema morale. Anzi, è giusto eliminare questa minaccia per l’umanità. Ecco, questo è il punto centrale: non si tratta veramente di uomini.

Anche nei secoli antecedenti spesso si erano accusati gli Ebrei di ogni misfatto, spesso su di loro si era artatamente dirottata l’ira del popolo: erano un comodo capro espiatorio. Tuttavia, il nazismo afferma qualcosa di profondamente diverso: non si perseguitano gli Ebrei in quanto autori di misfatti (immaginari ma creduti veri dalle folle) ma in quanto tali a prescindere da ogni e qualsiasi responsabilità personale o anche di gruppo. Anche essere stato un eroe di guerra della Germania, non salvava l’ebreo dalla deportazione.

 

SIONISMO

Nel complesso, tuttavia, gli Ebrei alla fine dell’800 andavano a integrarsi pienamente nelle nazioni moderne e poiché molti, secondo lo spirito dei tempi, perdevano anche le credenze religiose, risultava sempre più difficile distinguerli dal resto della popolazione anche per il diffondersi di matrimoni misti, essendo caduti gli steccati religiosi. E da questo timore nasce l’idea di crearsi un proprio “focolare” in Palestina per preservare una cultura che andava sfaldandosi ogni giorno di più. Da qui l’immigrazione in Palestina, la terra di Sion, antico nome di Gerusalemme sempre sognata dagli ebrei: man mano però che la migrazione andava ampliandosi, nascevano contrasti con la popolazione di lingua araba che vi risiedeva, con scontri che gli inglesi, che allora governavano la Palestina come mandato dalle Nazioni Unite, cercavano di contenere.

Sopravvenne l’antisemitismo nazista che sfociò nella Shoah, qualcosa di mai visto prima nella storia. A questo punto, la formazione di uno stato ebraico non rappresentava più un mezzo per preservare una cultura, ma una aspirazione ad avere uno stato proprio, a non dipendere più, come era avvenuto per duemila anni, dai popoli presso i quali dimoravano, ad essere finalmente padroni dei propri destini. Non più quindi  umiliarsi e chiedere merce, di essere sopportati e risparmiati, ma vivere come uomini liberi in grado di difendersi come ogni altro popolo.

In quel momento storico, di fronte a una guerra che aveva devastato tutta la terra, dall’Europa al Giappone, causato 55 milioni di morti e decine di milioni di profughi, il problema della Palestina non sembrava poi di difficile soluzione. L’ONU deliberò di dividere quelle terre fra gli immigrati ebrei e i residenti arabi, d’accordo sia il blocco comunista (Stalin) sia quello guidato dall’America. In fondo, si trattava di una piccola striscia di territorio di fronte all’immensità del Medio Oriente.

Gli arabi però non accettarono, divampò una guerra sanguinosa in cui gli ebrei riuscirono ad occupare molto più territori di quanto loro fosse stato assegnato. Soprattutto però, una parte degli arabi fuggì, sicuri di potervi tornare in breve tempo quando i grandi eserciti arabi avrebbero schiacciato la piccola  Israele, cosa che però non avvenne affatto. Erano fuggiti intorno ai 700 mila arabi, più o  meno il doppio di quanti italiani lasciarono l‘Istria

Il problema però invece di decantare con il tempo, come avvenuto in tutte le pulizie etniche, si è andato radicalizzando perché il conflitto ha assunto significati, valori e senso che vanno al di là, molto al di là, dei territori contestati e dei profughi.

Il mondo arabo mussulmano ha visto in Israele non tanto un  popolo invasore, ma una aggressione dell’America, dell’Occidente che sono quindi i veri nemici da abbattere, come ricordava nel suo recente discorso Nasrallah.

Ai tempi dei nazionalismi alla Nasser si è parlato di una lotta contro il colonialismo, idea che ha trovato anche seguito, molto  seguito, anche nella sinistra antagonista occidentale. Ma in realtà, Israele non ha nulla a che fare con il colonialismo. Il colonialismo era la pretesa di grandi potenze di governare paesi considerati meno evoluti, barbari, per portare loro la civilizzazione e/o per sfruttarne le risorse (le due cose non erano sentite come  alternative). Gli israeliti non erano certo una grande potenza, non vogliono affatto portare la civilizzazione agli arabi, né tanto meno sfruttarne le risorse: vogliono solo uno stato proprio. D’altra parte, non è che l’America appoggiando gli israeliani abbia qualche vantaggio economico o politico, ma certamente ne perde e tanti.

In un secondo tempo, con il prevalere delle correnti religiose radicali islamiche, lo scontro ha assunto aspetti religiosi: è una lotta dei credenti contro i cristiani crociati, che li minacciano. In realtà, niente è più lontano dalla laica mentalità moderna occidentale  che una guerra di religione. È evidente che tali interpretazioni sono del tutto irrealistiche, prive di ogni fondamento, e tuttavia le masse arabe paiono condividerle.

La conseguenza è che la soluzione che a noi occidentali pare ragionevole, ovvia e obbligata, della divisione in due stati pare invece impraticabile: Hamas non vuole uno stato palestinese, ma distruggere Israele, intesa come minaccia a tutto il mondo arabo mussulmano

Una parte dei governanti arabi si rende conto della realtà delle cose, ma rimane pur sempre impopolare.

Va aggiunto un altro elemento che spesso viene trascurato: il fondamentalismo religioso si trova ormai anche tra gli ebrei. Per buona parte, le cosiddette colonie in Cisgiordania, che di fatto al momento attuale rendono impossibile la formazione di due stati, sono opera di una minoranza di ebrei che ritiene che tutta la Palestina sia stata assegnata da Dio stesso ai figli di Israele. Di conseguenza, rinunciare anche a un solo lembo di essa sarebbe sacrilego. Si tratta di una minoranza, diciamo pure di una piccola minoranza, ma combattiva e ben organizzata, che riesce a condizionare l’intera nazione israeliana.

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