Alberta frequentava un master nell’università della sua città. Tra i moduli previsti ce n’era uno sulla condizione femminile.
La professoressa titolare di questo modulo continuava a blaterare: la condizione femminile l’aveva studiata sui libri.
Alberta cosa volesse dire essere donna, nell’Italia che si diceva emancipata, l’aveva sperimentato sulla sua pelle. Alcuni anni prima aveva vinto un concorso per un posto di lavoro, che fino a pochi anni prima era stato solo retaggio maschile. Così, per la sua attività, si era trovata a dover stare quotidianamente, da sola, in un gruppo di uomini.
Appena aveva iniziato a lavorare, dopo essere stata selezionata tramite un test difficilissimo, lei si era sentita dire che era una ‘ladra’ perché con la sua presenza rubava il posto a un ragazzo, che un simile posto di lavoro avrebbe potuto formare una famiglia.
A nulla serviva discutere e dire a questi colleghi anziani, che facevano certe considerazioni, che il concorso che Alberta aveva vinto era stato aperto anche alle donne e che lei lo aveva vinto per meriti personali e non per grazia ricevuta.
Alberta aveva studiato dalle suore, ragazza cresciuta in un mondo di ragazze: cosa gli uomini pensassero delle donne non lo sapeva.
Scoprì con orrore che, per i suoi colleghi uomini, le donne, a meno che non fossero la propria moglie o la propria figlia, erano tutte puttane. Cose, oggetti da denigrare con leggerezza, di cui si poteva dire tutto e il contrario di tutto, roba da infangare con superficialità, solo per ridere, per passare il tempo, per dare spazio alle proprie frustrazioni, nella certezza dell’impunità di gruppo.
All’inizio, con lei, sul posto di lavoro, qualcuno, tra quelli che si sentivano più belli o più affascinanti, temerariamente ci aveva provato.
Alberta ebbe il suo bel da fare per dimostrare, senza offendere nessuno, che lei stava lì solo per lavorare e che non era in cerca di avventure o di sesso.
Capì presto che bisognava stare molto attenti: guai fare una gentilezza in più ad uno e non ad un altro. Bisognava trattarli tutti allo stesso modo per non scatenare velenose gelosie. A meno che uno non stabiliva una particolare empatia con quello che nel gruppo maschile era considerato il capo: allora tutti gli altri automaticamente si sottomettevano. I gruppi femminili sono più anarchici e forse mai una donna si sarebbe sottomessa se la leader del gruppo avesse avuto più attenzioni per un ragazzo che alle altre piaceva.
Alberta ancora rideva quando, ripensando all’inizio del suo nuovo lavoro, alcuni cercavano di conquistarla, presentandosi con la camicia aperta e il petto reso glabro dal’estetista, quasi che i meccanismi di seduzione maschile e quelli femminili fossero i medesimi.
Magari per i maschi è sensuale una scollatura un po’ più profonda o può essere fonte di turbamento lo spacco in una gonna. Per una donna è diverso, forse una frase gentile colpisce di più che una camicia sbottonata.
Quanto uomini e donne fossero diversi Alberta lo scoprì presto. A volte, arrivava in ufficio una donna vestita in modo originale e molto vistosa, che non passava inosservata anche a causa del trucco pesante. Per Alberta questa donna era bellissima e lei avrebbe voluto indossare gli stessi vestiti e lo stesso trucco. Per gli uomini quella donna era invece bruttissima. I suoi colleghi non si facevano scrupoli a commentare tra loro.
Probabilmente le donne occidentali si vestono alla moda e si truccano per competere tra loro, soggiogate dai bisogni indotti dalla pubblicità e dal commercio. Gli uomini invece credono che le ragazze si agghindino per conquistare loro.
Già, gli uomini…figli di mamma, credono sempre di essere il centro dei comportamenti femminili.
Alberta capì presto che bisognava far sentire unico, ciascuno dei suoi colleghi, senza frustare questa sorta di narcisismo che ciascuno aveva, se voleva avere vita non troppo difficile in un gruppo maschile.
Ciascuno uomo, a suo modo, crede di essere il più bello, il più affascinante, un essere degno di attenzione e di ammirazione.
Passati i primi giorni, Alberta, in ufficio, era diventata solo una persona che lavorava e i suoi colleghi non badavano più a lei e al fatto che fosse una donna. Non si facevano scrupoli a fare commenti sulle diverse clienti donne che arrivavano in ufficio, per qualcosa.
Spesso nel posto in cui Alberta lavorava arrivava una prostituta. Andava fare il suo lavoro, poi si fermava a chiacchierare con gli uomini.
Un giorno alcuni colleghi di Alberta si misero d’accordo per andare a fare sesso con questa donna. Trovano un posto e, a turno, almeno a loro dire, ci andarono. Uno di loro non volle farlo. Allora gli altri stipularono un patto tra loro e con la prostituta. Lei doveva fare esplicite offerte sessuali a questo uomo ritroso, mentre si trovavano in una stanza, e gli altri guardavano non visti da una finestra schermata.
Quell’episodio, lo schermirsi del loro timido collega, diventò oggetto di risate tra maschi, di scherni e di racconti per mesi e forse per anni.
Alberta ripensava a tutto questo mentre la professoressa dell’Università continuava a blaterare della condizione femminile studiata sui libri.
Ma cosa ne sapeva quella professoressa delle meschinità e della grandezza degli uomini, lei che di uomini e di donne pare sapesse solo quello che aveva letto sui libri?
Sì, perché gli uomini erano capaci di bassezze come quella di andare a turno con una prostituta, anche se avevano una partner, e di bullizzare un collega, che era diverso, ma erano anche capaci di uno spirito di corpo e di solidarietà, inesistente nei gruppi femminili.
Le donne sono le peggiori nemiche di se stesse. Perché allora prendersela solo con gli uomini se esistono certe disparità tra i sessi? Ma questo è un altro discorso, che porterebbe davvero lontano. Chissà se lo sapeva la professoressa, che in cattedra continuava a parlare imperterrita.