di Giovanni De Sio Cesari
La soluzione della questione palestinese è stata individuata già al momento del primo conflitto, circa 75 anni fa, e rinnovata periodicamente. Tuttavia, da allora, il conflitto continua e si riacutizza periodicamente in una sorta di eterno ritorno degli stessi avvenimenti. La soluzione prevedeva la divisione della Palestina in due parti, con la formazione di due stati, uno israeliano e uno arabo, ma essa non si è mai realizzata, e anche se riproposta oggi di fronte all’ennesima tragedia di Gaza, ha ben poche possibilità di attuarsi.
Nel 1993, con gli Accordi di Oslo, sembrò che si stesse effettivamente realizzando, con la famosa stretta di mano tra gli allora leader Arafat e Rabin. Tuttavia, il processo di pace si arenò molto presto, in parte per le esitazioni di Arafat e in parte per l’opposizione in Israele, che culminarono con l’assassinio di Rabin da parte di un estremista religioso ebraico.
A noi occidentali, sembra la soluzione logica e quasi inevitabile, ma altrettanto non sembra in Medio Oriente, un mondo molto diverso, come ricordano sempre gli israeliani. Bisogna tenere presente cosa pensano gli israeliani e gli arabi, che giudicano e si regolano coerentemente alla propria mentalità, che è molto diversa.
Al momento, il maggior ostacolo proviene dagli insediamenti ebraici sulla West Bank: dovrebbero essere smantellati, almeno in parte, per la formazione di uno stato palestinese, mentre vengono invece sempre più ampliati. In effetti, non c’è alcuna motivazione pratica alla loro esistenza se non il fondamentalismo ebraico, che è speculare ed esasperato quanto quello islamico. La maggioranza laica dovrebbe essere in grado di affermare le proprie ragioni, specialmente se l’America mostrasse di condizionare il proprio indispensabile aiuto al ritiro dagli insediamenti.
Tuttavia, bisogna considerare che la formazione di uno stato palestinese non garantirebbe necessariamente la fine delle ostilità. Il ritiro dalla striscia di Gaza ha comportato per Israele delle difficoltà insormontabili. Gaza è diventata la base di attacchi continui, ai quali Israele non riesce a far fronte in nessun modo. Potrebbe accadere lo stesso anche per la West Bank, cioè il resto del territorio palestinese. Nessuno è in grado di saperlo con certezza. Certo, la creazione di uno stato indipendente arabo comporterebbe l’accettazione dell’esistenza di Israele, ma nessuno può sapere se questa accettazione sarebbe mantenuta e porterebbe alla pace, oppure se prevarrebbero quelle correnti intransigenti che si sono affermate a Gaza quando gli israeliani si sono ritirati.
Vediamo allora l’altro campo. Tutto il mondo arabo, al di là delle infinite divisioni, vede l’esistenza di Israele come una ingiustizia insopportabile, un’invasione che ha cacciato dalle loro terre coloro che vi vivevano da circa 1500 anni. Ai tempi del fiorire dei nazionalismi arabi, come quello di Nasser, gli israeliani sono stati visti come una espressione del colonialismo. In realtà, la questione palestinese non ha nulla a che fare con il colonialismo, che ha caratteristiche e modalità diverse. In seguito al tramonto dei governi laici e nazionalisti, è subentrata una rinascita religiosa, o meglio, del fondamentalismo religioso islamico. Con esso, la lotta si è radicalizzata, assumendo un carattere religioso. Non si tratta di una guerra di religione, poiché nessuno cerca di convertire l’altro, ma per gli islamici, Israele rappresenta la punta degli infedeli che aggrediscono i fedeli del vero dio. È una lotta del dar el islam (terra dei fedeli) contro dar el harb (terra della guerra, cioè degli infedeli).
Hamas è l’espressione più nota di questa visione, ma non la sola. A differenza di quanto ci aspetteremmo, essi non si preoccupano delle terribili conseguenze delle loro imprese. Non organizzano piani di evacuazione e ricovero, ma al contrario invitano a restare al loro posto, a non muoversi, per mostrare ai malvagi nemici che non hanno paura, perché Dio è onnipotente (Allah Akbar). I fedeli si abbandonano alla sua volontà, che decide della vita e della morte, come di ogni cosa (Inch’Allah). E se moriranno per mano dei malvagi, Dio, il misericordioso, li accoglierà nel suo paradiso perché hanno manifestato la loro fede (Shahid, cioè testimoni della fede) e godranno per sempre di infinite delizie.
Di una cosa sono certi: un giorno, libereranno la città santa (Al Quds, come chiamano Gerusalemme) dalla cui roccia Dio Onnipotente fece ascendere il Rasul (il profeta) fino al paradiso.
Nello statuto di Hamas, la Palestina è Waqf (sacro deposito), una terra consacrata a Dio Onnipotente, di cui essi stessi non sono i padroni e quindi non possono cederne nemmeno un lembo senza diventare empi. È harem (proibito), e basta, non si può fare. Non importa quanti missili o aerei abbiano i nemici: è Dio Onnipotente che decide della vittoria, e per ottenere la vittoria, si deve essere degni, manifestando la propria fede.
Altri arabi non si affidano direttamente a Dio, ma tutti, di tutte le tendenze, possono essere in disaccordo su tutto, ma su una cosa concordano: gli israeliani sono gli invasori, e l’esistenza stessa di Israele è una ingiustizia assoluta che andrebbe cancellata.
Nell’altro campo, gli israeliani, tutti, religiosi e non, pensano che se saranno sconfitti, saranno sterminati o pressappoco. Fra essere sterminati tutti e sterminare tutti gli altri, chiunque sceglierebbe la seconda possibilità, gli israeliani, come qualsiasi altro popolo. Non ci sono diritti umani o convenzioni di guerra che tengano o abbiano senso.
Essendo così diversi i metri di giudizio, non ha molto senso parlare di una pace giusta, di equità, di diritto, poiché ognuna delle due parti usa parametri e criteri inconciliabili.
Tuttavia, se si vuole che questi orrori non continuino oltre le tre generazioni già impegnate e piombino sulla quarta, bisognerebbe riconoscere che la soluzione dei due stati non sarà quella giusta per nessuna delle due parti, ma è l’unica effettivamente praticabile.